Richard Benson, una storia vera ma piena di bugie (2024)

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Richard Benson, una storia vera ma piena di bugie

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    Gabriele Niola

    Il ricordo

    È morto oggi un personaggio eccezionale, che tutti ricorderanno come un pagliaccio

    Richard Benson, una storia vera ma piena di bugie (2)

    Credevo che Richard Benson non sarebbe mai morto. Anche se la sua apparenza faceva pensare il contrario, ormai da anni. Era l’ultimo della sua razza e un esponente di una categoria nella quale esisteva solo lui.

    Chiunque sia entrato in contatto con lui negli anni ‘80 e ‘90, nella sua fase di personaggio da tv regionale, ne ha rispetto e stima. E c’era da averne! È complicato spiegarlo a chi non c’era in quegli anni e lo ha conosciuto dopo, quando l’esplosione di fama dovuta ad internet l’ha reso personaggio nazionale, enfatizzandone l’aspetto clownesco. Aveva circa 50 anni quando la sua vita è cambiata per la quarta volta grazie al peer to peer e gli audio dei suoi spettacoli scambiati su eMule e poi anni dopo caricati su YouTube. Da lì in poi, negli ultimi 20 anni, è stata una picchiata senza fine. Più cresceva la fama più perdeva quello che un tempo l’aveva reso un re della musica, tremendamente locale ma come si ripete allo sfinimento oggi, così locale da essere globale. Di certo Benson è un personaggio impensabile adesso, pura mitologia romana e aspirazione mondiale, una delle ultime persone pubbliche delle quali il poco che si sa è tramandato a livello popolare e quindi ampiamente distorto, mentre le sparute certezze vengono dalla più in affidabile delle fonti: Benson stesso. Per ognuna delle informazioni di questo articolo cercheremo di riportare fonti e quoziente di affidabilità. Ma non aspettatevi troppo.

    Quella di Benson, in soldoni è la storia di un uomo che è sempre stato migliore del proprio pubblico ma che inevitabilmente ad esso era soggetto, da esso era dipendente e quello doveva servire, fino al più romantico ridicolo. Sarà ricordato come fenomeno trash ma era molto di più, anche se in pochi lo sanno. È stato relitto di più ere sovrapposte: in sé aveva il rock degli anni ‘60, il glam degli anni ‘70, l’esplosione delle tv commerciali degli anni ‘80, il trash degli anni ‘90, il peso della fama online degli anni 2000 e poi l’autoproduzione degli anni ‘10. Nessuno come lui ha vissuto l’evoluzione della cultura di massa, cavalcandola dalle reti regionali. Ha parlato di musica tutta la sua vita e anche scritto ma era con le azioni e con un’etica autodistruttiva del rock di cui sembrava un impiegato (obbligato a seguirla e timbrare il cartellino della rovina), che raccontava effettivamente cosa fossero stati quegli anni e soprattutto quella cultura. Aveva un atteggiamento machista come tutti gli uomini della sua generazione ma componeva versi anche al volo di eccezionale pregnanza, aveva un immaginario fantasy da progressive rock e poi faceva spettacoli con p*rnodive quando queste erano star, negli anni ‘80 e ‘90. Una delle poche personalità italiane da definire larger than life.

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    Benson era dotato di un senso della messa in scena letteralmente eccezionale, parlava in camera, cambiava ritmo e tono alla voce, aveva un accento romano marcato e uno britannico più sottile e lontano che emergeva solo ogni tanto. Si chiamava Richard Philip Henry John Benson, nato in Inghilterra nel 1955. Intorno al vero nome e alla vera nascita sono girate le voci più assurde da chi lo voleva al secolo Riccardo Benzoni, a chi lo voleva figlio del padrone della Benson & Hedges. Dovette presentare un documento in una delle molte trasmissioni che conduceva ma la cosa, chiaramente, non ha fugato nessun dubbio. Il mito è sempre più forte della realtà, non ha senso credere a qualcosa di vero e ordinario quando si può tramandare qualcosa di falso e leggendario. Lo faceva Benson stesso con le sue storie radicate nel vero e proiettate nel mito. Non è una menzogna che abbia frequentato i grandi chitarristi dell’era del virtuosismo metal, da Malmsteen e Steve Vai (ci sono le foto) ma è meno facile da credere che un giovane Marilyn Manson andasse ai suoi concerti o che fosse richiestissimo in America come racconta. Storie e storielle che sparava senza remore, come un qualsiasi borgataro romano vanaglorioso al bar. E lo faceva in anni di internet, in cui nessuna menzogna rimane impunita. Era parte di una pantomima con il suo pubblico in cui ognuno interpretava un personaggio (pubblico incluso).

    Era il passato nel presente, era stato ragazzo nell’era in cui la musica in Italia guardava al rock straniero, aveva suonato la chitarra in un gruppo progressive, Il buon vecchio Charlie (solo un album pubblicato, omonimo, e pure bello). Aveva partecipato (dice lui) alla Woodstock italiana a parco Lambro. Poi assieme alla musica di cui aveva fatto parte era cambiato, era diventato metallaro, della parte progressive aveva seguito il filone del tecnicismo. Per tutti gli anni ‘70 e poi ‘80 dava lezioni di chitarra, si esibiva nelle discoteche, era personaggio da vita notturna, e poi uno da reti regionali con trasmissioni serie condotte con la sua immancabile parrucca. Ripeto: trasmissioni serissime condotte con una parrucca. Era un animale perfetto per la tv, spaccava dischi in diretta, urlava, era comunicativo, avvincente e trasmetteva musicisti eccezionali, faceva emergere il sommerso, era sponsorizzato da negozi di dischi. Era seguito. Era stimato. Anche se la sua apparenza rimaneva ridicola.

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    Era nato con la radio ma era chiaro che uno come lui era in televisione che avrebbe trionfato. Perfetto per essere mangiato dalla fama audiovisiva, ad un passo dall’essere un clown ha tenuto duro fino a che età e salute gliel’hanno consentito, poi ha ceduto miseramente. A notarlo per primo non a caso è stato uno dei mecenati del trash, Roberto D’Agostino, che gli fa fare una passerella a Quelli della notte, poi come detto le reti regionali e i programmi. In uno prendeva telefonate in diretta, idea folle che ha fatto nascere quel rito di insultarlo in maniere sempre più creative che si è portato dietro per il resto della sua vita. Amore espresso con insulti. Pubblico che lo andava a vedere per tirargli panettoni bagnati e polli crudi al grido di “Che Dio te baci freddo!” e molto peggio. Uno spettacolo nello spettacolo in cui il pubblico fa molto più ridere di chi è sul palco, in cui dovettero mettere la rete come per i Blues Brothers.

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    Nell’epoca dei videocorsi di chitarra anche Richard fa il suo, registrato in una tavernetta. Oggetto di culto assoluto e introvabile, oggi alla portata di tutti su YouTube. Poi Carlo Verdone lo inserisce in Maledetto il giorno che t’ho incontrato (farà lo stesso decenni dopo con un altro pezzo da 90 della tv regionale romana, Massimo Marino) e oggi subito lo ricorda su Facebook. Quel film ne enfatizza l’assurdo, sancendo ufficialmente la fine della sua seconda vita. Dopo quella da musicista e quella da musicologo televisivo, inizia quella da personaggio trash. All’apice di questa fase finirà anche su Rai Due nelle grinfie di Max Giusti, puro suppellettile da screziare, clown da attivare a comando che risponde senza esitazioni alle richieste di far ridere di lui e non con lui.

    Ma Richard Benson, detto poco gentilmente er parucca, per la parrucca sempre indossata è sempre stato tormentato. Con quell’immaginario ci flirtava da quando suonava sul palco con Milly D’Abbraccio o con quella che poi è stata l’ultima delle sue compagne, Esther Esposito, sposata qualche anno fa tra mille rimostranze. Lei ha parlato di beni ingenti mandati in fumo negli anni e impossibilità di gestire il denaro. Così si sarebbe rovinato. Non si fa fatica a crederlo e pare plausibile. Di certo lo spartiacque di questo temperamento vitalissimo e della fase peggiore di Benson è stato il tentato suicidio a cavallo del millennio. Un atto che alcuni dicono frutto di pene d’amore, lui stesso dice che è stato spinto, altri come Angelo Carpenelli, gestore del negozio di dischi Istinti musicali, afferma fosse un tentativo di suicidio per via di un artrosi che gli avrebbe impedito di suonare la chitarra (e del resto non ha più suonato seriamente). L’assurdo è che il tentativo è avvenuto, sembra, nella maniera più romanesca possibile, buttandosi da ponte Sisto, sul Tevere. Anche lì è sopravvissuto, lui l’ha sempre messa come una sfida alla morte, i suoi seguaci gli rinfacciavano: “Manco il Tevere t’ha voluto!”.

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    Quella di Richard Benson è una storia che insegna cosa accade a rimanere fedeli alle prorie idee e alla propria cultura di provenienza anche quando questa non esiste più. Che accade all’ultimo dei rockettari non convertiti, quello che urlava “Avevate tutti i capelli lunghi e ora ve li siete tagliati tutti! Che fine avete fatto? Che fine avete fatto??” e poi guardando dritto il pubblico con tono accusatorio “Ed è colpa vostra! E’ colpa vostra!”. È la storia di cosa i media moderni fanno a chi è perfetto per il loro meccanismo, esaltati a patto che si distruggano per il pubblico ludibrio, un vero clown triste. Negli ultimi anni le raccolte fondi su internet, le ospitate da Barbara D'Urso, l'amarezza ad ogni apparizione, così tanto che anche quell'incredibile rapporto di opposizione con il suo pubblico si trasforma in pena. Un cupio dissolvi.

    Richard Benson in Maledetto il giorno che t'ho incontrato

    Lo snodo cruciale però sta lì, in quell’incidente/tentativo di suicidio dopo il quale comincia a girare con un bastone che definisce infernale ma sembra fosse stato acquistato alla stazione Termini. In lui è sempre tutto così, epico nelle parole, terribile nella realtà. Negli anni peggiori Federico Zampaglione gli fa registrare un album dal titolo appropriato, L'inferno dei vivi, (il suo secondo dopo Madre Tortura nel 1999) venduto su iTunes per racimolare un po’ di soldi. È il Richard pieno di rancore, non sta più bene, litiga con tutto, la sua figura pubblica prende una piega sempre più satanico-condominiale, roba de noantri, da quartiere ma con echi da satanismo metal. Tutto improbabile sulla carta, tutto reale quando lo fa lui, che rende plausibile l’implausibile e quando dice: “Voglio regalarvi una lacrime da una terra in cui non piove mai…” gli rispondono “...la doccia tua!”, che ha come mantra “La vita è il nemico”. E se lo dice lui con quello che ha passato e ha visto, gli schiaffi presi e le volte che si è rialzato non suona come retorica.

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